Una normale giornata di lavoro. Solo che siamo a Bologna, in Via del Lavoro. Protagonista: Matteo, che voleva fare l’umanista e invece…
Il racconto di Matteo Buratti
Guido come se la percezione universale fosse che due gran maroni fare le stesse strade ogni giorno per arrivare poi sempre a lavoro. Imbocco Via Vestri per tagliare il semaforo eterno di Stalingrado, che dura talmente tanto che una volta ci ho visto una tipa farsi la manicure. Il pomeriggio è pigro, lento e con un bel color tipico di una giornata di sole qui in Padania.
Mi cade lo sguardo sul cartello col nome della Via alla mia destra, quella del negozio dove lavoro, dove qualche genio ha messo una A a pennarello sopra la E e così si legge una cosa che ha molto più senso: Via dAl Lavoro. Suona decisamente meglio. Eppure sono qui, proprio qui, con tutto il Pianeta a disposizione, ma QUI. Parcheggio. Tolgo le chiavi. Lo stereo si spegne proprio sul ritornello di un provino di un mio brano che stavo riascoltando. Già, perché io volevo fare l’umanista, il poeta per la precisione, ma lavoro in un ricambi auto. Esco dalla Golf, platealmente. Forse in contrasto col mio umore. Forse era un riflesso inconscio per darmi un tono. Forse, sono pazzo… ormai.
Ore 15.30 – esterno – Via del Lavoro – Negozio di ricambi auto
Sono in negozio da circa un’ora e tutto sembra tranquillo quando vedo una vecchia Honda di un rosso sbiadito, tutta scassata, perfino arrugginita nella carrozzeria, che singhiozzando si ferma davanti alle vetrine. Sudo freddo. Sembra di essere dentro Sonatine di Kitano per il trattenimento della tensione nelle difficoltà. Sì, perché so già che qualcosa mi aspetta, ogni volta, in questo angolo di mondo ricettacolo di casi umani.
Una donna sull’ottantina, capelli viola, grinta da ventenne, apre lo sportello del passeggero e scende. Nel contempo esce anche il guidatore, un uomo sulla sessantina, piccolo, magro, coi tratti distintivi del Sud.
“Senta, ce l’ha la batteria di questa macchina?” domanda la Signora dai capelli viola.
“Direi di sì, alziamo il cofano che controllo” le rispondo.
Rivolgendosi all’uomo chiede di sollevare il cofano.
Negli attimi di silenzio aggiunge: “Lui è il Solfanaio, il mio amante, è buono solo per due cose, poveretto. Non parla neanche italiano”.
Il Solfanaio, con accento credo calabrese, risponde tipo: “Ecco fatto”.
E da lì comincia quel balletto fra surreale e neuro-deliri tanto tipico da queste parti. La batteria ce l’ho. Mi appresto a montarla. La Signora e il Solfanaio stanno praticamente con me dentro il cofano tetanico della vecchia Honda, battibeccando fra di loro.
“Se magari state a un paio di metri, è meglio di questi tempi”, dico cercando di non sbottare… “Mi fate venire un po’ d’ansia da prestazione”.
“Eh, come la mia amica, anche lei ha 81 anni come me. Dice che le viene con l’amante più giovane, tutte le volte, e poi non combinano niente”, risponde in mezzo dialetto autoctono la Signora, ridacchiando.
Nel frattempo mi ha nascosto inconsapevolmente la chiave del 10 e quella a tubo del 13, e a me cade un bullone di una staffa di fermo nel vano motore. Minuti di panico a cercarli. Le aveva messe in borsa, non per rubarle (sono sicuro), mentre ero andato a rispondere a una telefonata. Era proprio così, veracemente folle e di un altro pianeta.
Porto a termine il montaggio, sempre coi due ad assistere alla questione da dentro il cofano. Faccio pagare la signora. Saluto. Il Solfanaio chiede se la batteria esausta la può tenere, invece che lasciarmela per lo smaltimento. Sicuramente me lo aveva già chiesto almeno 3 volte. Gli spiego ancora una che quella batteria non avvierebbe nemmeno un triciclo elettrico per quanto sfinita e scarica. La Signora aggiunge un lapidario: “Tanto non capisce mica niente. È buono solo per 2 cose”. E se ne vanno. Ancora non capisco bene quali possano essere. L’allusione sessuale come l’allusione al proprio lavoro, le trovavo entrambe incompatibili con quell’umarell.
Non faccio in tempo a tirare il fiato, dire fra e me “ora mi fumo una paglia e mi metto a scrivere, che voglio finire la canzone”, che entra uno dei tanti clienti nordafricani. Mascherina tipo burka, mi guarda e mi dice una cosa tipo: “Sono arrivate le gomme che ho ordinato?”
Esito un secondo, pensando che gomme da auto noi non le vendiamo nemmeno, e mentre lo osservo attonito, questo genio sbotta gridandomi in faccia: “Tu non capisci niente, tu dormi in piedi! Coglione!”. E questo lo aggiunge con un discreto italiano.
Penso che è una giornata tipo, dalle mie parti.
Ma perché non renderla più movimentata.
Che risate nel finirla a cazzotti, e al grido di “Io volevo fare l’umanista!”
‘Fanculo.


Matteo Buratti
Nato a Bologna, voleva fare l’umanista e si laurea con Lode in Lettere Moderne nel 2006. Nel 2008 esce per Pendragon “Di Passione Chimica“, silloge di poesie. Negli anni a seguire si dedica all’autorato musicale. Si diploma alla scuola di Mogol, su Spotify potete trovare alcuni suoi progetti, sia come Matteo Buratti che sotto lo pseudonimo di Danimo!
Le playlist di Matteo per questo racconto speciale della sezione Volevo fare l’umanista!
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