Abbiamo bisogno di sentire il profumo del passato per dare il giusto valore al presente? Dipende da che passato, rispondiamo noi. Forse non quello del primo approccio al mondo del lavoro (sempre non retribuito): un tirocinio in un corridoio, fronte uscita d’emergenza.
L’articolo di Daniele Costantini
Per anni ho sentito neolaureati e neolaureate in Lettere lamentarsi della difficoltà nel trovare lavoro, e arrovellarsi su possibili soluzioni. Non ci avevo mai fatto davvero caso però, limitandomi sempre a un ascolto passivo, come quando dal dentista aspetti il tuo turno scrollando col dito i post di Instagram sullo smartphone mentre speaker radiofonici in sottofondo parlano e mandano canzoni.
Adesso però, e solo adesso che mi ritrovo faccia a faccia con le mie responsabilità e con il futuro – che è il presente – sono diventato a tutti gli effetti uno di loro. Uno che si lamenta e si arrovella per cavare un ragno dal buco e capire cosa fare e come farlo, tentando di non vanificare tutti gli anni dedicati allo studio.
Cominciare dal tirocinio
Passo le mie giornate su LinkedIn, che – dimenticate il cane – è l’amico più fedele del laureato in scienze umane, e mi dedico ad attività che richiedono tempo e grande dispendio di energie mentali ma che non ammettono in alcun modo l’essere remunerative: corso di editoria nel weekend, scrittura di articoli, recensioni di libri, collaborazioni con riviste e blog durante la settimana. Lo faccio con entusiasmo, impegno e piacere, perché amo farlo, ma nel frattempo dovrei pure poter fare la spesa.
Quello che ho capito, però, è che se volessi proprio intestardirmi nella ricerca di qualcosa che sia anche solo lontanamente attinente a tutto ciò a cui ho dedicato la mia vita finora, dovrei cominciare dai tirocini. Ri-cominciare, anzi, perché ne ho già fatti in passato, e ora dovrei porre nuovamente le basi di una futura carriera su un tirocinio sottopagato e magari avvilente. Mi torna in mente da qualche giorno quello che fu il mio primo approccio con il lavoro non retribuito.
Locazione: corridoio non abitabile
Era il 2016 e studiavo Lettere Moderne nell’università di una città che chiameremo A. Ero arrivato al terzo anno senza nemmeno accorgermene, evitando di interrogarmi più di tanto sul futuro, e arrivò anche il momento di svolgere le ore di tirocinio previste dal piano di studi. Così, io e i miei colleghi Pierfrancesco, Irma e non ricordo chi sbrigammo le pratiche burocratiche iniziali e dopo qualche settimana eravamo pronti a cominciare.
Ci presentammo puntuali nel giorno e all’orario concordati. Raggiunto il quarto piano, cercammo l’ufficio di quello che ci avevano detto sarebbe stato il nostro supervisore, il Professor T, che, al vederci sulla soglia, chiese chi fossimo e cosa volessimo da lui. Ci attendeva con ansia.
L’attività consisteva nel catalogare, digitalmente e fisicamente, la collezione di volumi che uno studioso aveva donato al dipartimento. Il Professor T ci mostrò prima di tutto quella che sarebbe stata la nostra postazione: un corridoio.
No, non un “ufficio a corridoio” (ammesso che esistano), né un “corridoio abitabile” (questo esiste, ne sono quasi certo), ma proprio un corridoio, di quelli che conducono alle stanze, alle aule, agli uffici. C’erano, sul fondo di quella passerella grigia e anche un po’ angusta, quattro banchi da scuola posti due di fronte agli altri e incastrati tra un mobile di ferro e un’uscita d’emergenza che dava direttamente sulla scala antincendio. Il Professor T ci spiegò brevemente cosa avremmo dovuto fare – assegnare un codice a ogni libro, trascriverlo su un’etichetta da attaccare sul dorso, registrarlo su una tabella Excel e riporre il libro su scaffali sparsi in giro –, e se ne tornò nel suo ufficio.
Allarme rosso
Quel primo giorno passò, e come quello molti altri. Tra un errore e un’incertezza diventavamo ogni ora più bravi e veloci nel ripetere gesti che – per quanto concedessero la possibilità di chiacchierare (ma solo in assenza del Professor T, che di tanto in tanto sbucava dal nulla con frasi come «Lingue più lente fanno mani più svelte!») – alla lunga risultavano alienanti, oltre che noiosissimi. Capitava perciò che ci concedessimo delle pause senza chiedere il permesso (essendo l’intera attività largamente autogestita): giusto il tempo di un panino, una sigaretta o un caffè al distributore automatico, affinché la spinta della caffeina potesse illuderci di un rinnovato entusiasmo per quell’attività sempre uguale. Ma questo cominciò a non piacere al Professor T, che in un paio di occasioni trovò vuota la postazione e ci rimproverò per aver lasciati incustoditi i pc.
C’è da dire, per rendere il tutto più chiaro, che due di noi utilizzavano, per l’attività di catalogazione, dei piccoli computer, datati, lenti e nient’affatto attraenti forniti dall’Università, mentre gli altri usavano il proprio computer. Quel rimprovero ci sembrò però strano sia perché soltanto due dei pc erano in qualche modo del Professor T, sia perché le nostre assenze erano sempre quantificabili in un arco di tempo compreso tra i quattro e i sette minuti, trovandoci peraltro soltanto un corridoio più in là. A chi mai sarebbe potuta venire la malsana idea di rubare dei vecchi modelli fuori produzione senza più alcun valore economico pieni di file Excel legati all’archivistica?
Sta di fatto che un giorno i computer scomparvero davvero.
Isolate l’area!
Si era fatto marzo ma, siccome in quella città la primavera arriva molto tardi, i riscaldamenti all’interno del dipartimento erano sempre in funzione. Così le prime ore del pomeriggio, quando eravamo ancora impegnati a scomporre e assimilare i carboidrati del pranzo, diventavano complicate da affrontare, e la pausa caffè era vitale. Successe in uno di quei pomeriggi che, tornando alla nostra postazione, trovammo i banchi vuoti: mancavano i computer dell’università. La cosa strana, però, era che i nostri erano rimasti lì. Andava avvertito il Professor T.
«Li hanno rubati!», furono le sue prime parole. Poi ci guidò verso la scena del crimine e cominciò a cercare in giro, invitandoci a fare altrettanto. Partecipammo a quelle ricerche chiedendoci il senso di cercare qualcosa che era stato rubato: i ladri a quel punto sarebbero già stati lontani con la discutibile refurtiva. Ma a tradire il Professor T fu proprio la paura di non essere abbastanza credibile. Ad un certo punto infatti disse: «Sicuramente li hanno nascosti per poi tornare in un secondo momento a prenderli. Devono essere qui da qualche parte». Ma come? – pensai- qualcuno viene per rubare due miseri pc sgangherati e nemmeno li ruba davvero? Perché non metterseli sotto il braccio e scappare direttamente dall’uscita d’emergenza lì accanto?
Non lo so Rick, mi sembra falso
La conferma a tutti i dubbi arrivò di lì a breve, quando il Professor T, calatosi con la testa e tutto il busto dentro un grosso scatolone in cui noi avevamo guardato solo superficialmente – considerando gli eventuali ladri troppo intelligenti per compiere una mossa del genere – ne riemerse con uno dei due computer. «Eccolo qua, lo sapevo!» esclamò, prima di tirare fuori anche l’altro. «Li avevano nascosti per poi tornare a prenderli», ribadì.
Noi ci guardammo e acconsentimmo tacitamente a lasciar correre, a fargli credere di averci fregato e che il suo proposito di spaventarci per non farci più lasciare la postazione fosse perfettamente riuscito.
Il tirocinio durò ancora un mese, ma dopo quel giorno nulla più accadde. Noi continuammo a lavorare bene e con impegno, ma ci vendicammo sul Professor T continuando a prenderci ogni tanto una pausa per il caffè o per un panino, sempre tutti assieme e senza lasciare qualcuno di guardia. Nessun computer sparì più.
Ri-cominciare dal tirocinio
Se volete sapere cosa ho imparato da quel tirocinio è che a volte non ci sono lezioni da imparare, e che un tirocinio, come una qualunque altra esperienza lavorativa, può insegnare metodi pratici e fornire nozioni tecniche ma non necessariamente insegna a vivere, a relazionarsi con gli altri o a stabilire le proprie esigenze. Un tirocinio non insegna a mantenere una stabilità fisica, mentale ed emotiva. A quello bisogna pensarci da soli. Bisogna ascoltare le direttive, ma anche se stessi, sempre, perché nessun lavoro vale quanto il proprio equilibrio, e nessuna pressione gratuita è giustificata. Alcune cose sono semplicemente sbagliate, e perciò inutili. L’esagerazione è una di queste.
E ora me ne torno a sfogliare e a selezionare offerte di tirocinio a cui candidarmi.
Daniele Costantini
Italianista, laureato a Bologna. Al momento seguo un corso di editoria e nel frattempo faccio l’articolista e il redattore per Palin Magazine, un progetto nuovo e interessante, come Le Faremo Sapere. Nelle foto vengo sempre con gli occhi chiusi.