Cimentarsi per la prima volta con le regole della scrittura in ottica SEO è come tornare a scuola e imparare una nuova lingua. Solo che a bocciarti, questa volta, c’è un motore di ricerca.
L’articolo di Camilla Faccini.
Laurearsi in lettere e sperare di vivere subito di un solo lavoro è pura utopia. Un po’ come tagliare la cipolla e sperare di non piangere, come il sole il primo giorno di ferie estive.
Così tra stage, part-time e prestazioni occasionali, lo scorso anno mi sono ritrovata per alcuni mesi a insegnare italiano la mattina a scuola mentre nel pomeriggio collaboravo con una redazione giornalistica. Davanti a me, studenti o intervistati che fossero, sempre facce sbadiglianti che non avevano troppa voglia di rispondere alle mie domande, ma questa è un altra storia.
La mattina spiegavo la complessità delle subordinate, l’imprescindibile uso del congiuntivo nel periodo ipotetico, la diatesi passiva dei verbi. E poi ancora i falsi riflessivi, il discorso indiretto libero, la differenza tra imperfetto narrativo o di consuetudine. Il pomeriggio, invece, lottavo con la SEO.
La SEO, aka sappi che impiegherai quattro ore a scrivere 2000 battute, è quell’entità misteriosa che definisce le attività di ottimizzazione di un sito web per migliorarne il posizionamento nei risultati dei motori di ricerca. Più semplicemente: per scrivere online devi produrre testi ottimizzati per i motori di ricerca. Alla fine un semaforo: verde si va, arancio meglio rivedere, rosso un disastro.
La SEO pretende da te frasi di massimo 25 parole, odia il passivo e le subordinate e vorrebbe tutto diviso in paragrafi debitamente titolati, alla faccia delle 4 colonne fitte di foglio protocollo da riempire a scuola. Scrivere in ottica SEO significa produrre testi originali ma con rimandi a siti esterni, testi non troppo lunghi ma neanche troppo corti (ovvio no?), e ti fa sempre sentire inadeguato con il suo perentorio giudizio di “bassa leggibilità”.
Una nuova grammatica
Abbandonata la grammatica tradizionale dei libri, iniziavo a conoscerne una nuova che vieta l’uso di frasi consecutive che iniziano con la stessa parola (alla faccia di secoli di anafore di poeti e letterari), che pretende che il concetto chiave sia ripetuto più volte con parole identiche (contro lo sforzo vano di apprendere nuovi sinonimi) e che ti invita a scrivere parole di transizione al posto degli avverbi (addirittura divise in additive, sequenziali, causali e avversative).
Mentre scrivevo di qualche furto in città o di qualche evento del weekend, cercando i tag più in voga su Google Search, pensavo ai miei studenti che ancora non riuscivano a cogliere tutte sfumature di un predicato nominale. Riflettevo sulla fatica di imparare qualcosa e sulla fatica spesso maggiore nel rompere e ricomporre in maniera diversa quanto invece si è già consolidato.
Perché la verità è che dopo cinque anni di lettere, e due tesi di laurea, si pensa per lo meno di aver imparato a scrivere bene. Si è iniziato a maturare uno stile, frutto di infinite letture e altrettante notti davanti ad un foglio bianco che faticava a riempirsi. Poi inizi a lavorare e vieni bocciato da un computer, da un motore di ricerca per l’esattezza. Da qualcuno a cui non puoi dire non ho capito, che non ti da esercizi per casa prima di una verifica e che non è certo disponibile per spiegazioni extra.
Il semaforo verde poi arriva, e anche la soddisfazione di aggiungere lo scrivere in ottica SEO tra le competenze del curriculum, ma a che prezzo.
«Ah prof, se trovo quello che ha inventato le subordinate…»
«Dimmelo, che ci faccio due parole pure io!»