“Professò“, soprannome dolce amaro nei ricordi del nostro autore. Pensava di lavorare in magazzino per un’estate, invece si preparava a un’epifania. Nessun fotogramma della Wertmüller, nessuna pagina di Pasolini, nessuna esperienza da laureando in lettere ti mette in contatto col “reale” come un magazzino della grande distribuzione. E così, mentre spingi un transpallet, scopri che è ora di crescere.
L’articolo di Elia Gaudenzi.
Il mio primo, vero, lavoro fu nel magazzino “ventilato” di una nota catena della GDO (grande distribuzione organizzata). Ventilato significa freddo, molto freddo se teniamo conto del fatto che iniziai a giugno: 2 gradi dentro e 30 fuori, escursione termica da fare concorrenza alle notti sahariane e raffreddore assicurato per chi, come me, aveva un fisico modellato sul benessere.
Si timbrava alle 6 di mattina, ancora in piena dormiveglia, e ci si dirigeva nello spogliatoio dove bermuda e t-shirt lasciavano posto a calzamaglia, pile, scaldacollo e berretta. Chi l’avrebbe mai immaginato che la distanza tra Courmayeur e Zanzibar fosse completamente circoscritta nella zona industriale di una cittadina di provincia? Lavorare in magazzino era semplice e, inevitabilmente, molto ripetitivo: equipaggiati di terminali portatili (ovvero radioline gestionali che forniscono le istruzioni) e transpallet con piattaforma operatore (ovvero il parente più prossimo del celebre muletto), dovevamo semplicemente distribuire la merce in entrata tra i vari stock dei punti vendita retail.
Facile, sì, ma non banale: ai miei occhi, la gestione organizzativa di questi immensi magazzini, portava con sé un duplice sentimento di orrore e fascino, lo stesso che accompagna la visione di tutte le grandi opere umane dalle piramidi in avanti. Nella “grandezza” non esiste welfare.
Per me, tuttavia, fu solamente un lavoretto estivo, una parentesi di realtà durante gli anni universitari. E nel dirlo provo un po’ di imbarazzo.
Educazione alla vita: livello Pasolini
Forte della consapevolezza dei miei tre mesi contrattuali (specificamente richiesti), mi rapportai quasi come fosse un gioco ad un ambiente fatto di persone con necessità reali, tangibili, per cui lavorare in magazzino significava ogni giorno sbarcare il lunario. Gente di varia provenienza, con storie di ogni tipo alle spalle e una inconsapevole propensione all’essenziale oggettività, senza arzigogoli di sorta. Tutto quello che usciva dalle loro bocche, era frutto dell’esperienza diretta, verificato personalmente: lo sperimentalismo galileiano in scala 1:1.
Non fraintendetemi però, non voglio esaltare la working class con parole di circostanza, ma far capire quanta distanza corresse tra uno studentello di Lettere imbevuto con qualche film della Wertmüller o qualche pagina di Pasolini, e il reale.
Il reale, questo astratto concetto di estrema materialità, conosciuto fin troppo bene da chiunque abbia percorso la via degli studi umanistici. È lui il referente della domanda «Cosa farai dopo gli studi?»; lui il grillo nell’orecchio che ti accompagna dall’immatricolazione alla laurea; è lui il banale da schifare ma che regge le fila di tutto; lui che ci armiamo a non affrontare.
Eppure è con lui che dobbiamo sbattere tutti la testa.
E il reale, per me, ha lo stesso sapore amaro di quelle due Marlboro rosse che mi offrivano i colleghi nell’unica pausa della mattinata lavorativa: un pugno nella bocca dello stomaco.
Educazione alla vita: livello Malboro Rosse
Eravamo, tra tutti, più di una ventina ed io ero l’unico a poter “vantare“ una laurea e tra i pochi ad avere un diploma. Ci tengo a sottolineare le virgolette sul verbo vantare poiché sono quasi sempre le possibilità e non le capacità a determinare il possesso di titoli di studio che, a mio avviso, valgono ben poco nell’economia di una personalità. Ad ogni modo, era ben chiara la distanza culturale che ci separava e lascio immaginare a voi quanto potesse lasciarli interdetti il fatto che mi stessi laureando in Lettere.
“Professò“ divenne ben presto l’epiteto col quale venni etichettato, con tanto di sorrisetto malizioso di accompagnamento a ricordare l’eterna legge della naia conosciuta sotto il nome di “nonnismo” che i più giovani sono costretti a sopportare. Nulla di offensivo ovviamente, semplicemente una perculata h24 a cui non puoi rispondere in alcun modo per via di gerarchie stabilite dal tempo. Amen.
Il responsabile era un buon uomo, pacifico per natura, ma alla costante ricerca di un autoritarismo militaresco che gli fuoriusciva malamente con urla isteriche non sempre giustificate. Ci feci i conti praticamente subito, quando, appoggiato col gomito sulla pila dei bancali a mo’ di novello Fonzie, eseguii uno sbadiglio, a detta sua, troppo profondo: apriti cielo; «Pensi di essere a casa tua?»; strigliata; testa bassa; non l’ho più fatto. A distanza di anni, tocca ammettere che, in questo caso specifico, aveva ragione.
Educazione alla vita: il reale
Comunque, il trauma dell’impatto si fece sentire solo inizialmente, quando ancora le abitudini da studente faticavano ad adattarsi a quelle di chi deve lavorare in magazzino (in primis il sonno: è faticoso svegliarsi alle 5 e mezza, va detto). Per il resto, quei tre mesi si rivelarono decisivi per avviare il processo di cambiamento nel mio sguardo che mi portò ad allargare la visione delle cose e ad abbracciare con maggior consapevolezza il quotidiano.
Mi dovevo fare le ossa, dicevano. Dovevo capire da dove viene il pane, dicevano. E, più di tutto, non dovevo più farmi vedere tra loro, dicevano. Sarebbe stato sbagliato nei loro confronti rinunciare ad opportunità che non tutti hanno. Un bello schiaffo morale per chi è abituato a lamentarsi per sport o per dovere civile autoassunto. Ne rimasi amaramente colpito.
Il contatto col reale non passava dunque solo dalla presa di coscienza che sopravvivere non è né facile né scontato, ma anche che per farlo ci sono responsabilità che non riguardano strettamente se stessi. Assurdo.
Io, abituato a galleggiare tra i voli pindarici del mio quotidiano, venivo strattonato vigorosamente a terra dal reale. Era ora di crescere.