Perdersi per ritrovarsi. Fuggire in Nuova Zelanda

Il filosofo e biologo Henri Laborit, nel suo saggio L’elogio della fuga, scriveva: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare». Questa settimana vediamo, con l’articolo di Elena Di Mauro, come un letterato possa riscoprirsi anche dall’altra parte del mondo e di quanto sia importante perdersi per ritrovarsi.

L’articolo di Elena Di Mauro.

Perdersi per ritrovarsi

Mi laureo, quasi in pari e a pieni voti; arriva il momento di decidere davvero, che fare?
Di tornare in gelateria come ogni estate non se ne parla; il dottorato spaventa; l’insegnante mai voluta
fare: «Uscire da scuola per rientrarci? Da matti…».
Idee chiare poche, quasi nulle, illuminazioni? Molte: quale miglior idea se non quella di scappare?

Destinazioni lontane

Sulla destinazione avevo vagliato tre possibilità: Australia, Canada e Nuova Zelanda, ovvero quei
paesi del commonwealth che offrono, ai ragazzi sotto i trent’anni di quasi tutto il mondo, un visto
speciale (il working holiday visa per la precisione) che permette loro di soggiornare un anno nel paese
con la possibilità di lavorare e viaggiare.
A grandi linee funziona così per tutti e tre i paesi, poi se si lavora nelle famigerate farm (nei campi,
nelle fabbriche, per intendersi quei lavori che la gente del posto non sgomita per fare, ecco) si ha la
possibilità di estensione del visto che varia di paese in paese e anche in base alla provenienza
dell’immigrato.
L’Australia, stando ai vari blog che leggevo per informarmi, mi dava la possibilità di guadagnare cifre
più che dignitose ed era ricchissima di scuole dove, chissà, magari avrei potuto insegnare un giorno.
Lo stesso valeva per il Canada in quanto entrambe queste destinazioni sono state oggetto
inflazionatissimo dell’immigrazione italiana nel recente passato.
La terra dei canguri mi offriva spiagge bellissime, deserti, national parks, città cosmopolite a iosa e
il secondo paese più grande al mondo.
A me, però, oltre a lavorare e imparare la lingua, interessava viaggiare.

New Zealand Express

Volevo sì capire dove volessi passare la mia vita ma anche visitare e fare esperienza di luoghi
totalmente lontani dalla mia quotidianità: questa fu la spinta decisiva che mi fece scegliere la
madrepatria de Il Signore degli Anelli
(che tra l’altro manco ho mai letto).
In Nuova Zelanda era possibile trovarsi su un vulcano per poi guidare due ore, facendo attenzione ai
pinguini, e finire a fare il bagno nell’oceano con i delfini; ci si poteva mettere sul van e mangiare
davanti ad un lago color azzurro vivo; dormire vicino a un ghiacciaio con a fianco una città pullulante
di persone da ogni dove. Pochi chilometri, moltissime sfaccettature e tantissimi colori mai visti in
natura.
Il paese del futuro, delle possibilità, the green country, the youngest nation, erano gli appellativi che
la stampa occidentale dava alla Nuova Zelanda e che me la facevano risuonare accattivante e
affascinante: comprai il biglietto.

Trovare la strada

Auckland, 18.000km di distanza da casa e la voglia di perdersi per ritrovarsi.
Vita da ostello; lavoro nei campi con podcast di letteratura latina tutto il giorno; ragazzi provenienti
da ogni parte del mondo e scuola di inglese nel fine settimana.
Fin dai 16 anni mi sono lamentata della società, di quanto non mi piacesse il mondo di cui siamo
figli e, anche nella terra dei Kiwi (gli uccelli, non i frutti), certe idee persistevano. Anche lì
ritrovavo gli stessi morbi che vedevo a casa mia.

Così un giorno mentre attraversavo il Mount Robert, immersa nel verde e nel silenzio, ho capito
veramente che forse la mia strada poteva essere l’insegnamento: se il mondo non mi piace, devo
fare la mia parte per cambiarlo e formare ragazzi emancipati (proposito altino ma di tutto rispetto).

Una latinista all’estero

Armata di motivazione, cv aggiornatissimo e livello c1 di inglese mi affidai a una job agency:
«Come ha detto scusi? L’insegnante di latino? È italiana lei, giusto? Bene, allora le consiglio
di fare il giro dell’isolato: troverà PizzaHut, lì ci sarà sicuramente una posizione aperta per
lei».
Io, io che non sono mai stata capace neanche di cuocermi un uovo. Interdetta e offesa (sentivo
puzza di stereotipi e razzismo), non ho gettato la spugna e, dopo aver pattugliato tutte le high
school della costa est dell’isola settentrionale, mi sono trovata una scuola totalmente femminile
(ebbene sì, è consuetudine in NZ avere scuole monosessuali) dove ho cominciato a fare ciò che
faccio anche ora a casa mia: l’insegnante.

Insegnare materie umanistiche all’estero è, diciamo pure, “simpatico”: spieghi per settimane
l’Eneide e ti senti dire: «Professoressa ci riassume l’intera opera in poche parole in vista del test
di settimana prossima?». E come gliela sintetizzi l’Eneide in quattro parole?
Oppure ti ritrovi a fare un seminario di latino, di sabato mattina, e una ragazza ti chiede la parola:
«Pardon, so what we study latin for?».
«Per imparare a non fare più certe domande» avrei voluto dire.
«Perché ti sei iscritta al mio corso Winter?».
«Vede, vorrei fare medicina e mio padre ha detto che studiare il latino potrebbe rivelarsi
utile per gli esami di farmacologia e anatomia».
Le motivazioni che a te, l’insegnante della lingua morta, ti fanno sentire apprezzata.

Paese che vai cultura che trovi

La nostra è una società, per definizione, più umanistica che scientifica mentre quella anglosassone, al contrario, è molto più pragmatica: studio A perchè voglio lavorare nel campo A. E lo sanno già da molto piccoli: Margareth Winter sapeva già di voler diventare medico a quattordici anni.
«Ho fatto Lettere per passione» mi sono ripetuta per anni: ecco, in Nuova Zelanda c’è poco spazio
per il diletto e, se studio qualcosa, lo faccio per fare quel lavoro. In quante si iscrivevano al mio
corso? Poche, veramente poche e pochissime erano quelle che lo facevano perchè si
appassionavano a Cesare e alla Gallia.
La parte più divertente rimaneva la traduzione: noi italiani spesso ci lasciamo andare
all’ispirazione, a senso, una parola che somiglia alla nostra lingua madre e tatataaan ecco finita
la versione. Per un neozelandese, english native speaker, è un tantino più complicato e nascono
le traduzioni più disparate, così come la lettura e la pronuncia che mi facevano sanguinare le
orecchie: quel plus pronunciato sempre plas, come giunior (Junior) o quella erre preceduta da
vocale che si trasforma in un fastidiosissimo schwa.
Ok, avrete anche conquistato il mondo ma, per rimanere in tema, traslando leggermente:
lasciate a Cesare quel che è di Cesare.

Elena Di Mauro

Laureata in Filologia Latina con master in didattica del latino, faccio anche cose divertenti: viaggiatrice zainata, lettrice affamata e insegnante precaria.

Dopo l’università ho preso lo zaino per stare via sei mesi (che poi sono diventati quasi due anni) e trovare il mio posto nel mondo che ho capito essere casa mia: la Toscana.

I Laureati
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