Raccontare piccole storie è come essere un cercatore d’oro. Si prendono le parole, le persone, gli sguardi, i contesti e si metto dentro a un setaccio a maglie strettissime, per restituirli intatti. Quando il procedimento funziona, le parole non sono soltanto belle: fanno bene.

L’articolo di Daria Capitani

Scrivi ancora sul giornale? Infinite volte ho risposto controvoglia. Perché scrivo sì, ma non sul giornale. Io scrivo il giornale.

So che è una differenza sottile, quasi impercettibile, ma sostanziale. Della sostanza dei giorni è fatto il mio mestiere, di sfumature piccole, che escono soltanto se si è capaci a setacciare. È il valore aggiunto che consegno a chi ha voglia di leggere. Meglio se su carta. Mi piace pensare che le mie storie possano intingersi dei colori su cui le pagine si appoggiano, mescolarsi con gli odori dei locali in cui sostano in attesa di qualcuno che si metta a sfogliare.

Faccio questo mestiere perché da piccola rubavo le attenzioni di mio padre al giornale per cui scrivo oggi. È un giornale di comunità, era grande come un lenzuolo, un formato che oggi non esiste più. C’era questo tavolino rotondo in legno proprio di fronte al divano, mio padre ci apriva sopra il giornale e si concentrava così tanto che pensavo fosse uno spazio incredibile e avvincente. Insomma, mi ha convinta.

E poi ci sono i miei giorni, quella distanza siderale tra la teoria e la pratica, i grandi ideali e le conversazioni reali. Il lettore, che si dice affezionato, al telefono: “Non mi è piaciuto l’articolo, avrebbe dovuto scrivere che…”. Chiedo “L’ha letto?” e lui candidamente risponde “Mi sono fermato al titolo”. L’ufficio stampa che in un vocale mi offre le informazioni necessarie “per scrivere un trafiletto” e si scandalizza se non l’ho trascritto come in un dettato. Se tutto è andato bene, sarà il silenzio a farlo capire. Ma se qualcosa sarà stato frainteso, o non assecondato, il silenzio si trasformerà in chiamate all’alba, messaggini whatsapp in stampatello maiuscolo, nei casi peggiori (storia vera) le faccine con il simbolo del vomito.

E allora giù a invitare all’ecologia delle parole, al linguaggio sostenibile e all’attenzione nella scelta delle frasi, perché le parole contano, curano, salvano. Sono così centrali le parole nella mia vita che quando sono troppo stanca non riesco più a trovarle. Penso lavatrice e dico lavastoviglie, penso caffettiera e dico teiera. Passo le giornate a invitare alla gentilezza gli studenti che passano in redazione, a utilizzare i Social in modo consapevole, ad avere a cuore l’interlocutore, sia esso di fronte o dall’altra parte dello schermo.

E poi arriva mio figlio, 9 anni e mezzo, a riportarmi alla vera essenza del mio lavoro, e cioè che la lettura non è mai un atto passivo. Quaderno rosso, compito di italiano, indica un sostantivo alterato accrescitivo. Giacomo, bella grafia e neanche un briciolo di esitazione, risponde Bottone, grande botto”.

Daria Capitani

Giornalista professionista in un giornale di comunità. Se sono triste ascolto un podcast, adoro i Clash e Ben Harper, vorrei vivere in un piccolo borgo di montagna, ho un marito e due figli che mi fanno un sacco di domande. Quando non so cosa rispondere, dico: “Chiedilo a papi”. Nel 2021 è diventato il mio blog: chiediloapapi.it.

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