L’archeologia, che mondo affascinante. Civiltà sepolte, antichi reperti, fossili preistorici. Ma come si declina nel mondo del lavoro? Cosa c’entrano solitudine e guidatori di mezzi meccanici? Ce lo racconta la nostra nuova laureata, in un articolo con finale dolceamaro.
L’articolo di Martina Masin
Lupi ed escavatori
Erano dieci mesi che vivevo per nove ore al giorno di fianco a un escavatore. Soffrivo talmente tanto la solitudine che pensavo di cambiare il mio nome in Harry Haller. In quel periodo lavoravo per una ditta archeologica che aveva ricevuto un incarico dalla SNAM (società nazionale metanodotti). Stavano scavando a Adria, città prima Etrusca e poi Romana, tracciando una chilometrica trincea nella quale avrebbero adagiato una condotta del gas, che fino a quel momento non aveva intercettato alcuna traccia di archeologia. In pratica era come se avessero affondato un cucchiaio nella stracciatella senza trovare il cioccolato. Immersa nella sconfinata pianura di mestizia che è attualmente il Polesine sorvegliavo la ruspa intenta a procedere nel suo incessante lavoro. Trascorrevo le giornate a fissare i denti della pala meccanica che aggredivano il limo scavando questo limes colossale e trovando solo enormi pacchi di sabbia. Mentre disperavo, assorta in quello spettacolo brullo e privo di testimonianze archeologiche che, se fossero apparse, avrebbero dato un po’ di senso alla mia presenza, mi domandavo come accidenti fossi finita lì visto che la mia passione è lo studio archeo-metrico dei materiali.
Archeologia: ricercatrici precarie e benne
Quando ero studentessa di Archeologia non aspiravo a diventare una professoressa ordinaria, tantomeno una docente a contratto, mi sarebbe bastato fare la ricercatrice precaria per tutta la vita. Anche quest’ultima prospettiva tuttavia, ho scoperto già al tempo, è un lusso riservato a pochi. Infatti, dopo dieci anni di formazione accademica, mi ritrovavo in aperta campagna, bruciata dal sole o avvolta da nebbia fittissima (a seconda della stagione), a un’ora e mezza di auto da casa, in compagnia solo di un mezzo meccanico e del suo manovratore, percependo 12 euro lordi all’ora. I soldi non bastavano per pagare l’affitto, le bollette e il cibo, figuriamoci se avessi avuto l’ardire di andare a mangiare una pizza con amici e amiche o, peggio ancora, fare un viaggio. La fotografia della mia vita a 31 anni era quella di una persona che passava fuori casa oltre la metà della sua giornata, che non riusciva a mantenersi e che stentava ad avere una vita sociale.
Competenze trasversali e addio all’archeologia
Una mattina uguale alle altre, con sveglia dalle 5, mi sono addormentata al volante mentre andavo in cantiere. Il giorno successivo, non credo serva spiegare perché, ho iniziato a mandare curricula per qualunque lavoro che non fosse l’archeolog*. Mi ha selezionata un’azienda che cercava receptionist. Quando ho fatto l’intervista telefonica non lo sapevo ancora, ma si trattava di un posto a sette minuti di auto da casa mia. Ricordo alle persone meno attente che prima lavoravo a 1.30h di distanza. Serviva una persona che potesse aggiornare l’immagine della portineria di una realtà industriale famosissima nel territorio e da poco costituitasi multinazionale. Per questo scopo volevano figure con competenze trasversali e lì, la mia laurea in lettere invece che una colpa è diventata un merito. È arrivato così il mio primo contratto standard a salario minimo. Avrei fatto qualsiasi cosa per non perdere questo “privilegio”. Lavorare in una reception mi sembrava una fortuna oltre ogni aspettativa e così mi sono impegnata, tanto.
Affiancatori di ruspe e dirigenza
Qualcuno deve averlo notato perché dopo due anni si è aperta una posizione in azienda e alcuni colleghi hanno fatto il mio nome. Ho partecipato alla selezione interna e ottenuto il mio attuale incarico di assistente di direzione. Con mio grande stupore il ruolo che rivesto oggi mi piace e mi appaga. Dire che questa è esattamente la vita che sognavo sarebbe ipocrita, ovviamente mollerei tutto domani per diventare ricercatrice precaria. Vorrei concludere però con un messaggio a coloro che hanno vissuto o vivono un’esperienza di lavoro sul campo simile alla mia. Non devono farsene una colpa se le cose non sono andate come sognavano. La responsabilità non è loro ma di chi ha in gestione un enorme patrimonio culturale, un immenso capitale umano e non li impiega nel modo giusto. Io sono solo stata più fortunata e auguro a tutti gli “affiancatori di ruspe” di potersi autodeterminare al meglio delle loro aspettative.

Martina Masin
Archeologa, impiegata, subacquea, runner e mamma di Elettra. Avrebbe voluto studiare a Hogwarts.