Il mondo dell’arte e delle fondazioni può essere il sogno di molti, ma non è per tutti. Sopravvivervi richiede doti illustri, ma una in particolare: la capacità di adattamento. Siate come un panetto di DAS, in mezzo a un mondo di porcellane.
L’articolo di Paolo Quaglia
Lavorare in una fondazione che tratta arte è il sogno di tanta gente, ma non il mio. Proporre progetti, ipotizzare quali correnti pittoriche possano raccontare un periodo sono idee interessanti su una carta che non diventerà mai realtà. Intendiamoci, qualche volta succede di provare soddisfazione, ma quasi sempre è un senso del dovere mascherato.
Tra i molti mestieri che mi è capitato di incrociare, organizzare eventi culturali è stato il meno frustrante. L’arte è un campo che non ammette replica: è come regalare un vinile jazz o lavorare nel terzo settore. In realtà io non ho mai amato le fondazioni, avevo appena finito un corso in organizzazione di eventi culturali e tutto quello che mi interessava era fare lo scribacchino. Anni dove il disincanto non era cosa nota e credevo ancora nei sentimenti.
Questione di privilegi
Arrivo ad avere il posto con la trafila classica che prevede come primo passo il caro e vecchio stage non retribuito. Accetto di dedicare tre mesi di servigi in una grande organizzazione che opera su Milano. Mi aveva impressionato la storiella in cui si era esibita una dei due titolari. “I primi tre mesi non possiamo pagarti, ma lavorare per la nostra realtà è un privilegio che vale qualche rinuncia, sarai d’accordo con me.” Dopo i 400 colloqui correlati dal classico “le faremo sapere”, mi presento tre giorni dopo dando per scontato il sì.
Quando ho cominciato le mostre in essere erano due: una a Palazzo Reale e l’altra a quello della ragione. Al colloquio avevo finto talenti di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, li avevo convinti a credermi serio. Gli orari, in un mestiere simile, non esistono, nel senso che si lavora sette su sette con reperibilità totale. Mi andava bene, già mi vedevo vendere quell’opportunità durante un aperitivo alla biondina di turno. “Di cosa ti occupi?” “Sto lavorando ad una mostra d’arte a Palazzo Reale “Sul serio?” “Sì, ma non è niente di che, sai sono appena tornato da Londra ho lavorato alla Tate …” e così via.
La biglietteria o delle passioni
La sede era nel solito spazio recuperato da una vecchia cantina dove ognuno aveva la sua scrivania e un Mac d’ordinanza che divideva con i colleghi. Non mancavano, ovviamente, la sala riunioni e il golden libero di scorrazzare tra i lavoranti. Comincio serenamente: profilo basso, rispetto per la gerarchia e umiltà. Dopo dieci minuti di lavori ad alta precisione (scarico del materiale da un furgone) vengo mandato a sostituire la ragazza della biglietteria per un inatteso attacco di influenza.
Continuo a far finta di niente e vado a Palazzo Reale in cerca di Franco che avrebbe dovuto indicarmi la postazione. Franco ha quasi cinquant’anni, è calvo e leggermente sovrappeso, qualche anno prima avrebbe potuto passare per un tipo accettabile, in quel momento sembrava la caricatura di un giocatore a fine carriera. Mi siedo al posto del bigliettaio e aspetto. Dopo dieci minuti arriva la prima visitatrice. È ben vestita, con i capelli brizzolati e una permanente anni 80 che ricorda molto il color evidenziatore.
Ville lumière
Chiede un biglietto scontato, in quanto insegnante in pensione ma la categoria non rientra tra le categorie destinatarie di riduzioni. La segretaria mi aveva intimato di fare sconti solo ed esclusivamente se previsti annotando il numero e la causa. Di colpo vedo Franco, che fino a quel momento non mi aveva nemmeno degnato di una sillaba, intervenire.
Ci sono problemi signora?
Non mi vuole fare lo sconto.
Mi guardava con una faccia a metà tra una brutta opera e Grease, io cercavo di mantenere il sorriso mentre pensavo per quale motivo fosse intervenuto quel tizio che nemmeno lavorava con me. A quel punto decido di tacere e lascio a Franco l’incombenza.
Rientra in una delle categorie elencate?
A quanto pare no, ma in Francia gli insegnanti hanno diritto a una decurtazione sul prezzo per tutta la vita.
Vada a vivere a Parigi.
Si era formata una piccola coda che avrei dovuto gestire, ma non si interrompe una gag. In men che non si dica il collega, di qualcuno lo sarà stato, era fuori dal gabbiotto. I due si spostano e io mi rimetto a fare il lavoro. Vendo due o tre ingressi senza alcun problema, poi si ricomincia.
Ci sono due mostre?
Una coppia di giovani universitari, l’età era quella, si avvicina. Lui mi chiede due biglietti e lei fa una delle domande più intelligenti di sempre.
Secondo lei qual è la mostra migliore?
Ci sono due mostre?
La ragazza mi fa vedere che Franco, in quel momento al bar, faceva il mio stesso mestiere per un’altra mostra.
Ha ragione.
La mostra migliore?
Non ne ho la minima idea, non sapevo nemmeno ce ne fossero due.
Si potrebbe ipotizzare che io prendessi il mio lavoro poco serenamente, ma non era così. Il rapporto con il pubblico è un aspetto difficile da affrontare. Convinzione comune sia che un animo gentile vinca sempre, trattasi di menzogna e lo dico con estremo rammarico. Chissà perché le persone tendono a sovrastimarsi in ogni ambito della vita. Dalle capacità relazionali a una casa su airbnb la parola d’ordine rimane una: non è colpa mia.
Come un panetto di DAS
L’arte è il campo peggiore per il rapporto umano. Una fondazione non ha ruoli, in una fondazione tutti sono tutto. All’occorrenza si diventa bigliettai, si pulisce una mostra a palazzo della ragione dopo aver aiutato a smontare le opere (mi è capitato con tanto di scopa in mano) e soprattutto non si conta molto. Obiettivi superiori in corso, esattamente come per l’amore.
Di questi tempi è la spendibilità la moneta dominante.

Paolo Quaglia
Nasce a Milano qualche anno fa. Usa la scrittura come antidoto alla misantropia, con risultati alterni. Ama l’onestà intellettuale sopra ogni altra cosa, anche se non sempre riesce a praticarla.