Dopo cinque anni bellissimi passati ad assecondare la sete di conoscenza la consapevolezza inizia a prendere spazio: la laurea in lettere ci ha trasformati in cacciatori in cerca di umanità e di impossibili risposte a domande esistenziali.
L’articolo di Nicola Fazioni.
È una sera qualunque, sei seduto in uno di quei bar (neanche troppo carini in fondo) che dà sulla piazza principale della città. Sopra di te il cielo stellato, dentro di te la legge morale, attorno a te qualche amico, davanti a te… uno spritz.
Dietro allo spritz è in corso una vivace discussione fra un medico e un ingegnere, con un fitto susseguirsi di domande interessate di un altro, che chiede con sguardo sinceramente curioso vari dettagli su anatomia e politiche aziendali.
E anche tu, che stai lì e ascolti, non puoi fare a meno di porre un paio di domande, ma a te stesso. Rifletti sul fatto che a parte le persone provenienti da un percorso simile al tuo e pochissimi altri, nessuno ti avrebbe mai domandato con sincera curiosità in cosa consista la paleografia greca, che cosa faccia precisamente un filologo o perché fare storia non significhi solo sapere elenchi di grandi battaglie e successioni di sovrani. E poi, sempre più addentro a un abisso quasi psichedelico, ti chiedi a cosa siano serviti i tuoi studi, quali vantaggi ti abbiano portato, cosa ti consenta di fare o essere in più rispetto a prima di una laurea in lettere.
La laurea in lettere sono stati cinque anni bellissimi: cultura in ogni forma, scambi, manoscritti, tanti manoscritti (è sorprendente quanto possa dare soddisfazione imparare finalmente e leggere grafie, mica tanto calli-, antiche di secoli), nuove lingue, nuove vite, tanti amici in ogni dove, l’erasmus, esperienze disperate di cucina, dibattiti infiniti sull’effettiva positività della rivoluzione francese, sull’Unione Europea, sulla dignità dei carlini, sulla maggiore virtù della cucina friulana rispetto a quella veneta.
La svolta
Da un giorno all’altro il traumatico risveglio: queste sono solo parole e oggi chi ne ha più bisogno? Oggi contano i numeri ma tu con i numeri non sei mai andato d’accordo.
Ripensi a tutti quei curricula inviati invano, alle persone conosciute al di fuori del tuo ambiente che ti hanno lanciato occhiate perplesse nel sentire della tua laurea in lettere, a quelle ragazze sveglie e intelligenti con cui credevi che i tuoi contenuti sarebbero valsi qualche punto in più. Ripensi al senso di smarrimento provato il giorno dopo la laurea, alla prima volta in cui davvero ti sei chiesto se non avresti fatto meglio ad assecondare il mercato e studiare altro. In fondo, perché? A che scopo tutto ciò?
Probabilmente fare questi studi, seguire questi interessi, veramente non serve a un granché. È piuttosto un coltivare il proprio spirito, trarre un piacere tutto interiore dal soddisfacimento di quella sete di significato, di umanità, di bellezza, che a un certo punto della tua vita ti ha fulminato. Perché, come scrive Marc Bloch a proposito dello storico, “somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda”.
Ecco, svelato l’arcano: sei anche tu un orco (di quelli con una sola testa, si spera, che non battibeccano di continuo con se stessi)! E come tale avevi fame, volevi nutrirti: quando lo stomaco chiama, difficilmente si riesce a pensare ad altro. Sta tutto semplicemente lì, in quella piccola frase.
«Ehi, ci sei?». Una voce amica ti desta all’improvviso. «Ci ripeti bene bene l’argomento della tua tesi? Ne stavamo parlando, eravamo stufi di cose noiose».
Be’, dai, forse qualcuno a cui la tua preda non fa proprio schifo c’è, dopotutto.


Nicola Fazioni
Storico con un’anima da classicista (o forse il contrario), appassionato di anticaglie varie, filosofia, letteratura, geopolitica, fantasy e cultura trash. La mia vera specialità è l’introspezione, il mio marchio di fabbrica la riflessività. Mi perdo in discussioni infinite e nei piatti austriaci.