Non è una novità che l’Italia del lavoro sia una giungla ostile, un continente nero livingstoniano in cui la sopravvivenza è riservata a pochi. Per noi umanisti poi, che dire? A quanto si dice, è nostra la scelta di avventurarcici senza scorte d’acqua! Non fatevi ingannare dalla miriade di serie tv da cui siamo presi in ostaggio ogni giorno, da Netflix, Prime video, Sky o la Rai: anche lo sceneggiatore medio, per sopravvivere, deve lottare.
Un articolo di Aaron Ariotti
Nell’estate del 2022 Writers Guild Italia (WGI), il sindacato di riferimento per lo sceneggiatore italiano, ha lanciato un sondaggio al fine di scattare una fotografia aggiornata della professione: tra i partecipanti, non solo autori aderenti a WGI, ma anche iscritti ad altre associazioni o non facenti parte di alcuna, per un totale di circa 150 persone: circa un quarto degli sceneggiatori attualmente in attività (un campione abbastanza rappresentativo ma non troppo).
Dietro le pieghe si cela un mostro
Non è dato sapere se i restanti tre quarti non abbiano partecipato perché troppo impegnati a sceneggiare (in tal caso i dati emersi sarebbero un po’ bugiardi). Più probabile però che chi non ha partecipato:
a) non sapesse nulla del sondaggio
b) fosse impegnato nella ricerca di un altro lavoro
c) non volesse lasciare tracce: non si sa mai, in questo mondo, chi siano gli amici e i nemici
d) fosse in vacanza ad Ibiza
I numeri inquietanti di questo sondaggio però sono altri.
“Litterae non dant panem”, ma anche gli sceneggiatori….
Innanzitutto le cifre ridicole che uno sceneggiatore medio guadagna oggi con il suo lavoro; in seconda battuta il tempo geologico che passa tra un contratto e l’altro, costringendo il 70% delle persone intervistate, quelle che magari non sono benestanti o magari hanno dei figli da mantenere, a dedicarsi almeno ad un’altra professione per sopravvivere.
Basti pensare che dall’ultimo sondaggio europeo, ormai di quasi un decennio fa, il valore medio dei guadagni derivanti dalla scrittura in campo seriale e cinematografico è di fatto rimasto invariato: circa 24.000€ lordi annui. Per capirci: all’incirca 16.000€ netti. Per capirci ancora meglio: 1.333,33€ al mese. Ovviamente, lo ribadisco, si tratta di una media: anche tra gli sceneggiatori c’è chi guadagna molto di più (è il mercato, bellezza!), chi sta bene di suo e non ha bisogno di guadagnare e chi guadagna pure meno.
Soldi soldi, cantava Mahmood. Già, i soldi. Siccome non se ne parla mai è bene ogni tanto ricordare che i soldi non sono lo sterco del diavolo come sosteneva qualcuno, e anche se lo fossero, lo sterco andrebbe comunque considerato un buon combustibile. E in tempi di crisi e di prezzo della benzina alle stelle è bene avere delle alternative.
Troppi sceneggiatori o troppo pochi?
A proposito di alternative, sembra che in Italia lavorino sempre gli stessi sceneggiatori. Perché? Nonostante si siano moltiplicate le occasioni in cui produttori e autori entrano in connessione diretta (ad esempio ai Blind Netpitch organizzati proprio da WGI), pare sia diventato estremamente difficile per le produzioni e i broadcaster trovare contenuti e persone su cui investire. Questo sembra il più grande paradosso.
Ci sono in giro sceneggiatori giovani, bravissimi e talentuosi, che vincono premi a tutto spiano, ma poi fanno una fatica immane ad entrare nel mondo del lavoro. Perché accade questo? La mia impressione è che ci sia poca fiducia e, in generale, poca voglia di rischiare.
Se chiedete ai produttori diranno che di sceneggiatori bravi in giro non ce n’è (sarà per questo che fanno lavorare sempre gli stessi anche su cinque progetti contemporaneamente?). Poi però danno la colpa alle scuole di sceneggiatura che sfornano troppi sceneggiatori ogni anno. Be’, si decidano! Ce ne sono pochi o ce ne sono troppi?
Nuove piattaforme, stessi problemi
A proposito, WGI ha analizzato anche i dati del recente rapporto annuale di APA, l’associazione dei produttori. Rispetto al passato si stanno producendo più film e serie tv.
“L’arrivo delle piattaforme”, scrive il presidente WGI Giorgio Glaviano, “ ha effettivamente ampliato il mercato e generato una ricerca di più contenuti. Più contenuti significa più storie da realizzare e infatti i tecnici (macchinisti, attrezzisti, elettricisti) lavorano di più e possono chiedere cifre più alte. Ma che succede all’inizio della filiera? Se è vero che si cercano più contenuti e tutti sembrano guadagnare di più, perché non è così per lo sceneggiatore?”. La risposta è che la scrittura è sottovalutata. Non solo dai committenti, ma purtroppo dagli stessi sceneggiatori: soggetti di serie venduti per qualche spicciolo, diritti di opzione regalati, contratti inesorabilmente sfavorevoli. Vuoi lavorare? Queste sono le condizioni. Prendere o lasciare. Preso per il collo (sì, c’è scritto collo), lo sceneggiatore medio, di solito, non lascia.
Il solito, amaro epilogo all’italiana
Questo però significa svendere le nostre idee; significa sminuire il nostro ruolo; significa, di fatto, contribuire ad alimentare un mercato drogato al ribasso. La soluzione qual è? Difficile dirlo. Ironicamente viene da pensare che si potrebbe cambiare settore e diventare macchinisti, attrezzisti, elettricisti. O magari produttori.


Aaron Ariotti
Aaron Ariotti (Torino, 1975) inventa storie dall’età di 10 anni. Nel 2001 comincia a lavorare come sceneggiatore all’interno della serra creativa Endemol dedicata all’ideazione e allo sviluppo di nuovi progetti di serialità televisiva. Nel corso degli anni partecipa alla scrittura di sit-com (Ugo, Don Luca II), soap opera (Centovetrine, Sottocasa), serie tv di prima serata (Grandi domani, I Cesaroni, Il tredicesimo apostolo) e svariati progetti mai entrati in produzione ai quali è molto affezionato. Attualmente insegna sceneggiatura alla Scuola Holden di Torino, alla scuola Belleville di Milano e ovunque sia chiamato a farlo. Nel (poco) tempo libero continua imperterrito a scrivere.