Se siete navigatori quotidiani dell’universo Instagram è difficile che non vi siate mai imbattuti in un post di CoseBrutteImpaginateBelle: un raffinato minimalismo b/w finalizzato a racchiudere il “brutto” nel “bello”. E “brutto” significa disagio, quella nausea occipitale che il lockdown del 2020 ci ha insegnato a tutti molto bene. CBIB fiorisce in quell’esatto momento storico, e da lì in avanti accrescerà sempre più la sua community a suon di martellate ironiche sui disagi del quotidiano.
Vi avevamo già consigliato il suo “calendisagio” come regalo perfetto per gli umanisti attorno a voi, ma la curiosità ci ha spinti a volerne sapere di più di tutto il progetto.
L’intervista ad Andrea Antoni
CoseBrutteImpaginateBelle è una realtà ormai consolidata dell’internet, una di quelle community che, volente o nolente, fa capolino nella home Instagram di qualsiasi utente italiano. Ma cosa si cela dietro quelle stoccate ironicamente crude e rigidamente in Helvetica? Lo abbiamo scoperto intervistando Andrea Antoni, ideatore, sviluppatore e promotore di questa realtà che ha attirato la nostra attenzione (e non solo la nostra).
Ciao Andrea, temo sia inevitabile iniziare con un grande classico: quando e come nasce il progetto “CoseBrutteImpaginateBelle”?
La carta d’identità (e il calendisagio) dice 9 aprile 2019: ebbene sì, Cose Brutte Impaginate Belle ha da poco compiuto 4 anni e frequenta l’asilo senza lamentarsi in eccesso. In realtà il progetto era nato qualche mese prima, nel novembre 2018 se non sbaglio, solo che non sapevo fosse un nuovo progetto. Avevo iniziato a pubblicare le prime immagini sulla mia fan page su Facebook (le prime non erano nemmeno tutte in Helvetica!) e poi, un poco vedendo che piacevano, un poco che
avevano una certa coerenza, ho deciso di dar loro “dignità” creando un profilo ad hoc su IG. Non sapevo che stavo per aprire l’account che mi avrebbe cambiato la vita, in tutti i sensi.
Il motivo è facilmente intuibile: parla di disagio, perché per me era un periodo di profonda tristezza. Avevo chiuso da pochi mesi una relazione durata quasi 10 anni e ne subivo potentemente gli strascichi, i sensi di colpa, il malessere esistenziale: iniziai così a esplicare il mio male con
questi post. Per quanto il progetto che si è poi strutturato sia estremamente lineare e coerente, andando a rivedere le prime pubblicazioni, a posteriori, si nota che effettivamente stavo male e che ero molto più “cattivo”. Inizialmente si parlava principalmente del disagio del lavoro dei creativi (in agenzia e a partita iva), poi ho esteso il raggio d’azione.
Già dal titolo fai intuire quanta importanza abbia per te la buona comunicazione: qual è la tua idea di essa nel nostro tempo?
Il nome è l’essenza del progetto: parliamo di argomenti tristi o negativi, impaginandoli bene sia graficamente che – soprattutto – a livello di ironia. Penso che i social siano colmi di mala-comunicazione, e che questa sia colpevole di molti problemi attualmente vigenti. Credo
che chi dovesse fare vera comunicazione si sia piegato alle leggi dell’algoritmo, del click-bait, e dell’engagement perdendo la sua vera essenza del diffondere la conoscenza. Credo anche che molti (veri o presunti) influencer siano schiavi di una falsa idea di felicità derivata dai like, impossibile però da ottenere per un progressivo desiderio di ottenere sempre più cuoricini. Io a tutto questo ho detto “no!”, e ho semplicemente postato quello che a me piace, fatto come volevo (certo, oramai anche con un occhio di attenzione ai trend, per continuare a diffondere il verbo al meglio). Non ho fatto “markette”, ho più volte denunciato il sistema, ho cercato di creare un angolo della rete in cui le persone abbiano voce e portino testimonianza della difficoltà di esistere e di (r)esistere. Questo mi ha portato a 264mila follower senza alcun tipo di campagna o sponsorizzazione. Senza volerlo sono stato diverso dagli altri e, senza volerlo, mi sono trovato un seguito assurdo (in passato ho anche chiesto di non seguirmi, ma non ha funzionato).


Ho letto che non è il tuo primo progetto social e, forse, non sarà nemmeno l’ultimo: perché i social? E perché proprio Instagram?
È una storia piuttosto lunga, che inizia con gli albori della mia professione e ormai è parte integrante di essa. Non smetterò mai di ricordare che io lavoro come grafico, ma sono un graffiti-writer, uno di quelli che dipingono scritte con le bombolette spray sulle pareti, tanto per semplificare il concetto all’osso. Quando iniziai a dipingere, nel 1997, notai subito un interessante potenzialità di internet e dei social, all’epoca agli albori in Italia. Escludendo il discorso dell’adrenalina, infatti, il motivo principale per cui un writer dipinge su un vagone del treno è il fatto che oggi dipingo qui e domani quel vagone porterà il mio lavoro in giro per il mondo: si poteva fare in potenza la stessa cosa con internet. Questo, in verità, successivamente ha anche stravolto l’approccio degli street Artists alla disciplina, ma lascerei da parte questo discorso. Insomma, ho iniziato a realizzare i miei primi “siti” per pubblicizzare i miei lavori e, subito dopo, a “spingerli” tramite i social network dell’epoca quali mIRC, fotolog, myspace e twitter. Così, in parallelo, sono nate le mie passioni per la grafica (inizialmente quella web, poi sono passato alla carta) e per i social network: le tre cose sono andate avanti, si sono sviluppate in parallelo e -spesso- si sono contaminate. Così attualmente lavoro come grafico, graffiti-writer e influencer, e tengo docenze di tutti e tre i campi. Instagram è il social che si è sposato meglio a me essendo prettamente visivo. Io ho però sempre amato profondamente Twitter, che per me è stata la vera palestra di uso dei social, la piattaforma che mi ha fatto conoscere le persone più eccezionali che ho scoperto in rete, nonché il primo social che ho iniziato a usare con vera concezione di causa. Non è un caso che, alla fin fine, con CoseBrutteImpaginateBelle ho portato i tweet (brevi messaggi taglienti), su Instagram.
Qual è il pubblico che vorresti raggiungere?
In realtà non credo di avere più un target particolarmente specifico, mi rendo conto che non sia corretto, ma resta il fatto che ho sempre approcciato i social banalmente, facendo e mostrando quello che mi piace. Poi, il fatto che le persone mi seguano è una sorta di “cortocircuito del sistema”. CBIB inizialmente era comunque rivolto a creativi, designer o architetti che lavoravano in agenzia o come liberi professionisti, poi nel tempo il tema del disagio si è ampliato e ora non c’è una fascia di pubblico precisa: è disagio. Più che altro sento il peso della responsabilità, che non mi schiaccia ma lo tengo presente, del grosso numero di persone che mi seguono e tendenzialmente sto cercando di far passare alcune buone prassi di comunicazione, approccio e uso dei social. Non credo si possa essere felici se attorno a te tutti stanno male, cerco quindi di dare un piccolo contributo nel migliorare le cose nei campi che un poco conosco.


“Però in Helvetica” è il leitmotiv dei tuoi post: cosa rappresenta per te questa font?
“Però in Helvetica” è la conclusione ormai classica e immancabile di tutti i post e, come tutto il progetto, è nato per caso ma non è posto lì senza motivo. Il fondamento di CBIB è infatti la tematica del disagio (le cose brutte), trattato però in modo ironico (impaginato bello). Si tratta quindi di prendere un evento di per sé negativo e superarlo, o almeno renderlo meno opprimente, prendendolo con leggerezza. In parallelo, in un web disseminato di meme molto divertenti (ma graficamente pessimi), ho deciso di creare dei post che fossero impaginati dignitosamente. Quindi ai coloratissimi post su instagram ho contrapposto il bianco e nero: minimale, forbito, elegante, ma anche un poco luttuoso. Ho eliminato le immagini da una piattaforma visuale, e ho inserito solo il testo, giocando sui contrasti del bold e del light, del maiuscolo e minuscolo e dell’uso di corpi di testo differenti.
“Educazione alla bellezza tramite empatia del disagio”, come si legge in bio. In pratica, ti faccio scherzare sulle cose brutte della vita ma, al contempo, ti educo a delle impaginazioni migliori a quelle che sei abituato a vedere, perché il problema sta lì: i grafici parlano tra grafici e spesso si dimenticano di dover parlare “al popolo”. Si chiudono nei salotti e si danno grandi pacche sulle spalle dibattendo tra loro di interlinee modificate di mezzo punto o di aver portato modifiche del colore di 2 punti di ciano. Poi la massa scatta fotografie storte e crea post usando comic sans. Il tentativo è quello di far vedere che si può fare qualcosa di diverso, perché se tu per tutta la vita vedi online solo grafiche pessime, sei portato a credere che quella sia la norma e quella prendi come riferimento per le tue creazioni. Ma concludendo: “Però in Helvetica” è la chiusura finale ai post. Va tutto male: però in Helvetica. È un modo di affrontare la vita con stile, sempre. Come va? Male. Però in Helvetica. Consapevole del fatto che le cose vadano male, cerco di superarle scherzando e affrontandole con classe e senza lagnarmi, lineare e preciso come questa font. È stata scelta non tanto per gusto personale, ma in quanto per la maggior parte dei grafici, architetti e designer è considerata il top, e quindi parlando di stile ed eleganza, era quella che poteva portare con sé questo concetto nel modo più lampante.
“Educazione alla bellezza tramite empatia del disagio” mi ha fatto saltare alla mente una tela manierista con Fantozzi come soggetto. Che ruolo ha secondo te la “bella maniera” nel quotidiano?
Per quanto non possa assolutamente dichiararmi un Santo, ritengo che il mondo avrebbe nuovamente bisogno di un poco di gentilezza e, sotto certi aspetti, di formalità. I social network sono sempre più spesso usati come “sfogatoio” nel quale le persone riversano odio, insulti e lamentele (più o meno sensate) di ogni sorta, facendo stare anche molto male il prossimo, e senza subire alcunché dalla loro azione. E la risposta che solitamente viene data è che “i social network sono così”, quando in realtà sono delle scatole vuote che noi riempiamo (ultimamente di odio) e che noi possiamo regolare (ma pare più semplice lasciare il caos). Faccio un esempio semplice: tu pubblichi una cosa da vendere e le persone ti scrivono in DM: “PREZZO?”. A parte che solitamente è scritto, e se non è scritto direttamente è scritto seguendo un link, l’approccio è totalmente deumanizzato. Non c’è traccia di un “ciao”, di un “scusa ma, sai dirmi…”, vieni trattato come un computer, come se digitassero su un motore di ricerca per ottenere la risposta. “Non hanno tempo” per “stupidi” convenevoli e non hanno tempo di seguire il link: personalmente lo trovo tristemente terribile. Come trovo terribile la prassi di molti influencer di lanciare “shit-storm” verso persone che in qualche modo li hanno osteggiati, di fatto scagliandogli contro le proprie armate di follower pronte a insultare il prossimo al loro via.
Sono azioni deplorevoli che andrebbero sanzionate. Non credo si debba vivere nel mondo degli orsetti del cuore, ma un minimo di rispetto e cortesia verso il prossimo dovrebbe essere la base della comunicazione e della vita di ogni giorno.
Ultima domanda, d’obbligo: come pensi evolveranno i tuoi progetti in futuro?
Sono una persona piuttosto rigida e precisa sotto certi aspetti, totalmente casuale sotto altri. Non ho mai fatto progetti di questo tipo, anche perché tendenzialmente faccio quello che mi piace, e cerco di farlo monetizzare; quindi, pensare a come possano evolversi in un futuro molto distante è complesso, anche perché non sappiamo quali saranno le piattaforme che potrebbero ospitarle.
Di certo dipingerò sempre graffiti, certamente farò grafica e userò i social: il come mi sfugge. Potrebbe essere che CBIB cresca ancora, potrebbe essere che collassi ma che nasca un altro progetto. Questo, al momento, non mi è dato sapere, ma, sempre su questo, applico la filosofia del surf che io ho fatto mia praticando lo stand up paddle: aspetterò l’onda, il momento propizio, e cercherò di surfarla. Quale sia quest’onda e in che spot la troverò, al momento non posso ancora saperlo, ma io e la mia tavola saremo lì, spero. Altrimenti vorrà dire che non c’ero, probabilmente perché dormivo. Speriamo almeno che il materasso sia comodo e i sogni belli.

