A fronte di titoli assurdamente altisonanti con i quali ai più piace definirsi in ambito lavorativo, dal business developer al sales manager and director, senza dimenticare il customer success specialist o l’on-site technical manager, vi regaliamo una riflessione su cosa sta dietro il nome della cosa, ovvero dell’importanza di chiamarsi, e definirsi, onestamente.
L’articolo di Davide Lioia
Alcuni giorni fa, gli amici di quel famoso blog che si chiama come una frase che conosciamo benissimo mi hanno mandato una newsletter diversa dal solito, dove mi invitano ad uscire dal mio torpore esistenziale con un fine ben preciso, ricordarmi che di tanto in tanto, fra una call e un meet, fra un business lunch e un weekly recap, potrei degnarmi di prendere in mano la biro e preparare un qualche articolo per il blog.
Unico problema è che non uso la biro dai tempi di Laszlo Biro, pertanto ho dovuto comunque mettere mano ad Office per buttare giù due righe; l’altro problema principale, quando mi metto a scrivere, è che ci vuole il mood giusto, devo mettermi le cuffie, trovare un buon accompagnamento, concentrarmi, e per concentrarmi giustamente mi distraggo, e per distrarmi navigo su siti internet vari ed eventuali, come negli anni novanta, ma forse anche prima, probabilmente come anche faceva Biro.
Quel famoso social con la grafica blu
Insomma finisco a navigare – che bel termine retrò, chissà chi è rimasto a dire “navigare in internet” nell’Anno Domini 2023 – su qualche sito, e finisco così in quel famoso sito, quel famoso social, quello con la grafica blu ma con meno foto di gattini e meno parenti dimenticati che ti chiedono l’amicizia, quello dove bisogna essere seri e distinti, quello dove non puoi blastare le persone a male parole, perché altrimenti dai di te un’immagine poco professionale, e magari il recruiter di turno lo nota. Quello dove quasi tutti hanno la foto profilo con le braccia incrociate, che non è più la posa del b-boy anni novanta ma è segno di professionale serietà, e dove quelli che non hanno la foto profilo con le braccia incrociate la hanno con lo sfondo con i colori della vision aziendale.
Non sto parlando del social di Elon Musk, penso che ormai sia chiaro. Quell’altro sito con gli annunci di lavoro, meno belli di quelli del blog però.
Insomma, finisco a scorrere i commenti dei miei contatti, ricordandomi che almeno due terzi di loro non sono realmente miei colleghi, ex colleghi, ex compagni di studio od in generale personaggi che hanno condiviso con me la sciagura dell’esistenza lavorativa (se la sventura unisce strani compagni di letto, figurati cosa può fare uno stage). Moltissimi sono hr manager con cui ho avuto a che fare, gente con cui ho fatto colloqui, oppure rami distanti di un’improbabile teoria dei sei gradi di separazione dal lavoro, secondo la quale aggiungendo un dipendente dell’Adecco sezione Cura Carpignano probabilmente entro sei gradi potrei entrare in contatto con Laszlo Biro.
Il francese fa il buon piatto, l’inglese il bel titolo.
E così, nel mio feed, vedo che a Esimio Sconosciuto piace molto quel post sul rispetto del lavoratore, mentre a Celeberrimo Estraneo lascia l’amaro in bocca la decisione di Mega-azienda di licenziare i suoi dipendenti nati di mercoledì, ed ancora Competente Professionista promuove un’offerta di lavoro come… Business Partner and Analyst. Considerando che a questo punto dello scrolling ho già fatto trentuno da un pezzo, guardo per curiosità anche l’annuncio.
Mi sono laureato una decina di anni fa, e ho imparato, fra le tante cose, il catalogo delle navi in più parti del testo di Pausania. A memoria. In greco. E ci ho pure preso trenta secco. Ma non ho capito cosa diavolo fosse un Business Partner and Analyst. L’offerta di lavoro volava nel solito guazzabuglio di termini, “fast-paced environment”, proposta “challenging”, ed altri anglismi d’accatto copiati dal diario scolastico della buonanima di Steve Jobs. Ma, probabilmente per questo, non ho capito di cosa trattasse l’offerta. Non vorrei fare il solito panegirico sull’abuso dell’inglese, è proprio che mi sfugge il senso. La traduco letteralmente, ci rifletto, capisco. Cerchiamo una persona che studi il mercato e proponga soluzioni.
Un economista insomma, una figura così, qualcosa. Rimango un pochino spiazzato, come quando guardi il menù al ristorante e capisci che no, non ti basterà prendere solo un primo, perché dietro il nome altisonante di soupe d’oignon si cela la minestra di cipolle della nonna, ma il francese fa il buon piatto, e l’inglese fa il bel titolo.
Il nome della cosa
Mi incuriosisco, decido di mandare al diavolo l’articolo, navigo il web ancora più deciso – prima ripasso Pausania per assicurarmi di aver scritto giusto nella riga sopra – ed esamino. La stragrande maggioranza dei miei contatti ha titoli assurdamente altisonanti, business developer, sales manager and director, customer success specialist, on-site technical manager, e penso che ci debba essere un’importanza dietro il nome della cosa – Umberto non volevo, mi spiace ma il titolo era veramente bello così – o perlomeno che dietro tutto questo ci sia qualcosa di importante. Li guardo, li studio, no, niente, sono persone normali, non hanno mai inventato nemmeno una biro, come Laszlo. Mi rendo conto che il mio “Account manager” non era poi così assurdo.
Una cosa mi colpisce, un mio contatto. Uno solo.
“Educatore e pedagogista”.
L’importanza di chiamarsi onestamente.
L’unico, fra le mie conoscenze universitarie e scolastiche, che abbia creato un profilo lì – gli altri professori che conosco hanno sobriamente sdegnato la gloria di internet – e ha usato una definizione semplice, onesta. “Educatore e pedagogista”. Non full-time teacher, non daycare manager. “Educatore e pedagogista”. E anche in quest’occasione apprendiamo non solo l’importanza di chiamarsi onesto, ma anche di essere umanisti. Ripenso ancora una volta a quanto sia bello questo percorso di studi, e quanto sia bistrattato nel mondo del lavoro composto di soloni variamente anglofoni. Mi sta per scendere la lacrima, ma purtroppo devo abbandonare l’idea di scrivere un bel pezzo al riguardo, perché devo completare una zoom call per spiegare la nostra mission ad alcuni prospect, sarà per la prossima volta, s’è fatto tardi. Vediamoci per una soupe d’oignons, una di queste sere.


Davide Lioia
È il John McClane del latino cristiano, il Leon Montana degli antropologi, ma ora ha smesso, insegnare era una missione troppo dura. Crede fermamente che Alfieri possa essere un personaggio da film d’azione. Parla di se stesso in terza persona. Probabilmente è l’unico che da adolescente ha letto Manzoni senza costrizioni. Ama leggermente le iperboli, le esagerazioni, le entrate in scena drammatiche e le presentazioni drammatiche con esagerazioni e iperboli.
Gli altri articoli di Davide, penna affezionata di questi schermi, li trovate qui.