La nostra laureata torna su questi schermi ascrivendosi a pieno titolo nella rubrica dei simpatici lavoretti svolti durante l’università. Con un capo poco comprensivo, colleghi sfruttati e una misera paga, sarà lei ora, nel mondo dell’editoria, a “fare carriera”. Da tirocinante a tutor di altri stagisti impauriti e… polacchi!
L’articolo di Alessandra Terenzi
Da tirocinio a co.co.co
Da quando, dopo due anni di tentennamenti, sono approdata alla Facoltà di Lettere, ho sempre avuto chiaro l’ambito in cui avrei voluto lavorare: l’editoria.
Così, ancora in triennale, ho frequentato un corso di formazione professionale e ho poi colto l’occasione del tirocinio curricolare per fare esperienza in una piccola casa editrice della mia città, specializzata soprattutto in pubblicazioni digitali. E in effetti l’esperienza – e che esperienza – l’ho fatta.
Primi segnali di allarme: a poche settimane dall’inizio del tirocinio, elimino per sbaglio il codice di un intero capitolo di un libro già pubblicato in digitale. Reazione del tutor: urlo colorito e calcio a uno scatolone.
Paradossalmente, credo che sia stato proprio il modo in cui ho gestito quella situazione a farmi notare tra tutti i tirocinanti che si sono susseguiti nel suo ufficio. Invece di sciogliermi in lacrime come avrei voluto, ho mantenuto la calma e gli ho detto: «So come sistemarlo, dammi un’ora».
Editoria digitale: arrivo!
Sangue freddo e buona conoscenza del linguaggio HTML: sono queste le skill che mi hanno permesso, una volta concluse le 150 ore di tirocinio, di ottenere una proposta di “lavoro” presso la stessa casa editrice. Lavoro virgolettato perché costituito da contratti di collaborazione mensili a 5 euro all’ora. Sì, anche io ho arricciato il naso quando mi è stato svelato il compenso, però c’erano alcuni lati positivi. Orari flessibili, ufficio a uno schioppo di bicicletta da casa, possibilità di fare esperienza e imparare nell’ambito dell’editoria digitale mentre stavo ancora conseguendo la laurea triennale.
Nella mia mente sarebbe dovuto rimanere un lavoretto temporaneo da svolgere durante l’università. In realtà, i compiti e le responsabilità sono progressivamente accresciuti, fino a ritrovarmi tutor degli altri tirocinanti che in un flusso ininterrotto si avvicendavano in ufficio. In più gestivo il lavoro di tutti i collaboratori esterni che, come me, dopo il tirocinio avevano accettato di continuare a lavorare per il capo ma che, a differenza mia, non essendo della mia città potevano lavorare da casa.
La prima “promozione”
L’aumento di mansioni ha significato, ovviamente, un impegno maggiore. Infatti, oltre che svolgere il mio, dovevo controllare il lavoro degli altri, segnalare cosa andava bene e cosa no, tenere d’occhio il piano editoriale e assegnare i compiti ai collaboratori, oltre che gestire e istruire i tirocinanti. Il tutto sempre alla stessa paga e con lo stesso profilo contrattuale.
Da un lato è stata di certo una palestra e una grande occasione di apprendimento, e ora che ne sto riscrivendo mi viene un po’ di nostalgia per quel lavoro che, nonostante le difficoltà economiche e le relazioni interpersonali poco rosee, mi ha fatta crescere professionalmente.
Certo c’erano anche risvolti negativi, che dopo un anno mi hanno fatto pensare “Ma chi me lo fa fare di rodermi in questa maniera per cinque euro all’ora?!”. Preferisco, però, mettere da parte gli aneddoti amari, i momenti di sconforto, gli attimi di collera (sua) e di scoramento (mio), e raccontare l’episodio che nella sua tragicomicità è stata la proverbiale “goccia che ha fatto traboccare il vaso”.
Un pacco dalla Polonia
È settembre. L’ufficio, di una ventina di metri quadrati, conta me, il capo, tre o quattro tirocinanti, e il nuovo ragazzo che sarà poi il fortunatissimo individuo a cui lascerò il mio posto (e a cui viene promesso un contratto a tempo determinato da allora ma ancora non pervenuto).
A un certo punto, l’annuncio: “Alessandra, hai presente tutto quel lavoro che fai tu con i testi in digitale? L’esportazione da Word al formato xml, l’applicazione delle Regular Expressions per codificare e revisionare il testo, l’esportazione da xml a InDesign e l’impaginazione su tale suddetto programma?! A ottobre arriveranno due studenti di Informatica che ti potranno aiutare!” Ma che lieta notizia, mi dico io.
Per riassumere come è andata basta riprendere uno dei meme più diffusi sul web:
Quando lo compri su Internet: universitari polacchi già versati nelle arti informatiche, ottima conoscenza dell’inglese e del mondo dell’editoria.
Quando ti arriva a casa: sparuti diciassettenni ancora alle superiori, inglese piuttosto stentato, conoscenze informatiche ridotte a YouTube e a Gmail.
Codici cifrati in editoria
Ho ancora il sospetto che i due ragazzi (che chiameremo Kripstak e Petrektek) fossero più svegli di quanto ci abbiano voluto far credere, e che il loro atteggiamento sperduto sia stato un astuto metodo per evitare di fare troppa fatica. Tant’è che, quando ho provato a spiegare loro il flusso di lavoro e le tecniche con cui revisionare e sistemare i testi, la ricezione delle informazioni è stata pari al trattenimento dell’acqua da parte di uno scolapasta. “Certo”, ho ammesso io con la mia purezza d’animo, “in effetti è complesso lavorare su testi di un’altra lingua, posso ben capire le difficoltà che devono affrontare. Anche se in realtà loro dovrebbero lavorare sul codice che è in inglese, ma sai son giovani e inesperti e spaventati…”.
Morale: tutti i giorni creavo una cartella su Google Drive che conteneva i file a cui avrebbero dovuto lavorare e le istruzioni, punto per punto, dei passaggi che dovevano applicare.
Ve ne lascio un piccolo assaggio per darvi un’idea di quanto folle fosse questo metodo (e per farvi vedere come sono le Regular Expressions):

Secondo voi, funzionava? Certo che no.
Confondevano i passaggi, scrivevano male una formula, e tac che ogni sera, quando dopo il mio lavoro mi mettevo a controllare il loro, dovevo versare lacrime amare e scrivere un nuovo file di istruzioni dal titolo: Come sistemare il lavoro di ieri.
Bittersweet ending
Aveva senso, tutto questo sbattimento? Certo che no. Ma per un mese intero è quello che ho fatto, e adesso che lo riscrivo mi rendo conto che avrei dovuto lavarmene le mani e assegnare loro un altro tipo di compito. Ma il capo mi aveva detto di “usarli” per quello, e quando segnalavo le difficoltà che stavo vivendo (anzi, stavamo: mi immagino la noia e la confusione che hanno provato quei poveri ragazzini), se la rideva dicendomi: «È solo un mese!» oppure «Questi polacchi li odi proprio, eh?». Insomma, nessun consiglio costruttivo né alcuna proposta per semplificare il lavoro di tutti in qualche maniera.
Alla fine di ottobre i due polacchi se ne sono andati, tra un mio sospiro di sollievo e uno spasmo di nervoso che da lì a pochi mesi sarebbe sfociato in un’interruzione dei rapporti lavorativi con il mio capo.
Su una cosa ha avuto ragione: di quei polacchi, non mi sarei mai dimenticata.
Ciao Kripstak e Petrektek, spero che stiate bene, e che nemmeno voi vi siate scordati della vostra paziente, forse un po’ esaurita, tutor italiana.

Alessandra Terenzi
Overthinker al punto che comporre questa minipresentazione ha risvegliato angosce esistenziali mai sepolte. Provo a definirmi come una venticinquenne in ritardo di due anni sulla vita che vorrei, lettrice fortissima e fortissima nuotatrice (amatoriale…). I miei obiettivi sono lavorare con i libri e di vivere al mare.
Da un paio di mesi ho trovato il coraggio di scrivere in pubblico: ho una sorta di blog in cui blatero sparsamente di libri, scrittura e editoria: https://terenziafolio.medium.com/.