Prima uscita in solitaria dopo mesi di serrato addestramento in redazione. La chiave per sopravvivere ad una conferenza stampa sta anche nello scegliere bene le scarpe.
L’articolo di Camilla Faccini.
Luglio 2019. 34° all’ombra che diventano subito 45° quando sei costretta a muoverti su sfiziosi ma poco agili sandali con tacco. Prima uscita in solitaria dopo mesi di serrato addestramento. Sono pronta a sfondare le linee nemiche.
Avevo iniziato a lavorare in una piccola redazione da alcuni mesi e stavo andando per la prima volta da sola ad una conferenza stampa. E da sola intendo senza cameraman, tecnici o supporti: ne doveva uscire un’intervista con servizio video e un pezzo scritto. Unica indicazione: “Se hai bisogno, chiedi all’ufficio stampa”. Avessi solo saputo chi fosse.
Entro, chiedo informazioni. “Quinto piano, in fondo al corridoio c’è l’ascensore”. A questo punto è giusto sapere che la mia incondizionata fobia degli ascensori è seconda solo alla paura di importunare troppo le persone. Quindi no, non chiedo se c’è un altro modo per raggiungere la sala e prendo l’ascensore. Temperatura percepita -27° e sudori freddi alla fronte.
Prima di varcare la soglia preparo le armi e faccio in modo che il logo del giornale sia più visibile della mia faccia. Funziona. Mi consegnano la cartella stampa, mi siedo, leggo, cerco di ritrovare in sala i volti che avevo precedentemente studiato con ardore su google immagini. Ne becco un paio.
Chiedo timidamente quando è possibile fare le interviste. “A fine conferenza, tra poco iniziamo”
Arrivano le grandi televisioni locali, mi si passi l’ossimoro, le telecamere, i tecnici, i fotografi. Decidono che no, non si inizia: prima le interviste, sono di corsa. I giornalisti non hanno tempo per aspettare e sono sempre di fretta. Sempre. E se c’è una cosa che ho imparato è che l’ufficio stampa odia la stampa perché quando arriva non ha nessuna intenzione di rispettare i programmi.
Disubbidisco alle indicazioni, mi intrufolo tra braccia meccaniche e treppiedi e allungo con una mano il microfono mentre con l’altra reggo il cellulare per riprendere. Che coraggio, che moto d’irriverenza (e che inquadrature storte)!
Tocca a me fare una domanda e nel preciso istante in cui gli occhi del collezionista d’arte si posano su di me ogni forma di intelligenza viene meno, sparita, evaporata, puff. Esce un timido “Che facciamo qui oggi?” seguito da alcuni istanti di silenzio imbarazzante. Lui inizia a rispondere, io respiro.
Bastava dirlo, colleghi, che è tutto un gioco d’anticipo (e un cambio di scarpe in ingresso).